Deus vult! (parte 1 di 2)

di Francesco Sala

                               Matia Chincarini, Gesù presocratico vs. Giotto, 2010


Prendi tre ricche noiose e annoiate signore della New York alto borghese del '29, mettile a bere un cordiale nella roboante cornice di faccendieri e bancari che si schiantano sui marciapiedi come cachi maturi e avrai la nascita del MoMa.
Prendi tre ricche noiose e annoiate signore della Brianza alto borghese di novant'anni dopo, mettile a bere un vodka-Redbull nel fascinoso contesto da balera demodé di un'Italia rabberciata dalla crisi con lo scotch. E non avrai nulla.
Lady Rockfeller e amiche si sono attaccate alle gobbe dei mariti. Li hanno unti e munti a sufficienza per la costruzione di un progetto di cultura: nato con una manciata di stampe in un appartamento affittato e finito a dettare stili e orientamenti.
La Lady Brambilla di turno, compagne di sauna al seguito, faticherebbe ad impegnarsi per altro che non rientri nel panorama “gioiello-pelliccia-fine settimana in Costa Azzurra”. E troverebbe del resto come interlocutore un soggetto disposto a spendere per l'ultimo modello di SUV della BMW, ma non per garantire alla comunità in cui vive il restauro di una tela barocca. 
In Italia, dietro le spalle di uno statalismo del “ghe pensi mi”, esiste una disarmante assenza di partecipazione del privato alla determinazione di progetti culturali. I musei privati veramente efficienti sono pochi, pochissimi: spesso consegnati ad un limbo di appassionati visionari, comunque estranei al grande pubblico; fatalmente rannicchiati nell'incapacità di segnare il passo. E pochi sono anche i soggetti che investono in arte e derivati. Tolte le fondazioni bancarie - impegnate in meritorie campagne di recupero del pregresso, meno attente alla fase di semina del futuro - il panorama delle aziende private che investono in progetti di cultura è ai minimi termini.
Altro paio di maniche - era così quasi cent'anni fa, figuriamoci ora - negli Stati Uniti. Ed altro paio di maniche in Gran Bretagna.
La risposta facile facile, in questi casi, è dietro l'angolo; i rintocchi della campana dell'alibi suonano a morto e additano come killer dell'intervento privato in arte una cultura della fiscalità atrocemente arretrata. In un paese come il nostro dove non esiste sostegno efficace alle erogazioni in favore di soggetti culturali, dove lo Stato non incentiva chi si fa carico di un bene collettivo, sarebbe naturale il ricorso all'ognuno per sé e Dio per tutti. O Dio per nessuno, considerata l'atavica fame di contributi e lo stato di prostrata anoressia del macro-sistema cultura nel nostro paese. 
In effetti negli Stati Uniti ancora si ballava il charleston quando già i primi avveduti pionieri capivano che la Casa Bianca non avrebbe potuto mettere soldi - sempre e comunque - per qualsiasi cosa. A sostegno di un tessuto imprenditoriale già di base attento alle necessità della cultura, è nato un felice sistema fiscale che da sempre - i primi provvedimenti risalgono al 1917 - si preoccupa di creare condizioni per incentivare il sostegno privato a progetti di pubblico interesse, compresi naturalmente quelli culturali. Pur con differenze a volte sostanziali tra uno stato e l'altro, il governo federale offre una ricca serie di agevolazioni sia al singolo cittadino sia all'azienda o fondazione che decida di sostenere progetti culturali, intervenendo in modo differente a seconda del tipo di contributo erogato.
Per quanto riguarda le donazioni in contanti, molto popolari negli Stati Uniti (dove il 20% del sostegno privato alla cultura è espresso da singoli cittadini), è prevista una deduzione dalle tasse “sino a un limite massimo pari al 50 per cento del profitto lordo dichiarato nell'anno dell'avvenuta donazione. In caso l'ammontare delle donazioni superi tale limite, il governo permette di scaricare eventuali eccessi negli anni successivi, purché tale sgravio abbia luogo entro cinque anni dalla donazione2”. Una donazione di prodotti finanziari (dalle azioni ai buoni del Tesoro fino alle obbligazioni) gode di una deduzione dalle tasse inferiore, pari al 30% del proprio reddito lordo, anche in questo caso potenzialmente “spalmato” in cinque anni. Ancora diverso è il comportamento nei confronti delle donazioni da parte di aziende, che non supera il 10% delle entrate tassabili.   
In Italia3 il tema del sostegno privato alla cultura è stato affrontato con attenzione non prima degli anni '80, ed ha vissuto - almeno in una sua prima fase - di una certa confusione metodologica, essenzialmente basata sulla non sempre chiara differenza tra le spese di rappresentanza e quelle per “pubblicità e propaganda”.
Un contributo determinante nell'evoluzione dell'intervento privato è arrivato dalla legge 342/2000 che ha introdotto per le imprese la piena deducibilità delle spese per erogazioni liberali in ambito culturale e introduce un “tetto al coacervo delle donazioni” oltre il quale il beneficiario viene tassato, mentre il donatore - chiaramente - no.
Si è osservato4 che nel 2001, a fronte di un tetto fissato in 270 miliardi di lire si sono avute, in un periodo oggetto di monitoraggio relativo a soli 60 giorni, 32 miliardi di lire di erogazioni. Nel 2002, ridotto il tetto a 175 miliardi di lire, le erogazioni sui 12 mesi hanno raggiunto appena i 27 miliardi.
Leggi, numeri, riferimenti … tutto un po' complicato. Ma con un piccolo sforzo, facendo due conti, si capisce come in Italia “soprattutto alla luce degli interventi legislativi più recenti - il quadro sia tutt'altro che sfavorevole e che, quindi, non manchino in questo momento gli strumenti e le agevolazioni fiscali che consentono e favoriscono tale investimento in cultura. Ciò che ancora manca è piuttosto una adeguata conoscenza di queste agevolazioni ed una vera e propria “cultura” imprenditoriale dell'investimento in cultura […] non vi sono più veri ostacoli - se non mentali - all'investimento dell'impresa in cultura5”. 
Ok. Negli Stati Uniti si è avvertita la necessità che il privato sostenga finanziariamente arte e cultura. Il legislatore ha interpretato il bisogno, ha elaborato incentivi, ha ottenuto risposte positive. In Italia lo stesso bisogno, e risposte analoghe, ottengono risultati inferiori. Considerato che pure in Gran Bretagna - dove le mosse di apertura al privato nell'intervento sui beni culturali risalgono alla Tatcher, mica tre secoli fa! - la questione non può che essere riportata al piano della maturità raggiunta dai diversi paesi. Dalla loro anima. (continua)

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