Rappresentare la figura umana nelle arti non è più, fortunatamente, un tabù come ai tempi degli eccessi ideologici delle avanguardie - che, d'altra parte, stimolarono un proficuo interesse per gli oggetti, lo spazio e le relazioni. Più recentemente l'arte ha ripreso confidenza con il soggetto ed in particolare con l'uomo, con il rispecchiamento dell'artista stesso, che misura la figura umana ed analizza l'individuale ed il generale, e che svela le caratteristiche antropologiche ritenute essenziali. Performance e body art, nel nuovo millennio, paiono aver perso dosi di efficacia nel discorso sull'uomo e, inevitabilmente, tornano alla ribalta linguaggi e tecniche sempre attuali e fecondi.
I lavori della scultrice belga Berlinde de Bruyckere sono materializzazioni del dolore umano che slittano direttamente dalla sfera della percezione a quella dell'emozione. Osservando queste trasfigurazioni anatomiche si partecipa di un'angoscia cosmica, quello straniamento dell'uomo che risulta dalla mancanza di radici e che si concretizza proprio in un'assenza del "naturale". Gli ibridi della de Bruyckere, infatti, assumono dalla natura le forme dell'assenza e della ricerca di linfa vitale. Rami contorti ed escrescenze vegetali proiettano l'uomo verso il basso, alla ricerca di un fondamento etico ed esistenziale, del miraggio edenico. Le anatomie in disfacimento, tanto care all'estetica di Bacon e Freud, sono commenti alla storia dell'umanità. Commenti spietati, che chiamano in causa le guerre e gli orrori del secolo, forse ancor più evidenti quando si trovano in calce agli ormai celebri cavalli (simbolo della schiavitù e dell'addomesticamento).
Peter Senoner, scultore trentino di grande talento compositivo, realizza nei suoi lavori gli incubi di un'umanità desolata e vittima dei propri successi tecnologici. La chimera dell'immortalità e della perfezione dei corpi si incarna in costrutti anatomici alieni, vagamente orientali nei tratti e per certi versi debitori dell'estetica post-human in voga negli scorsi decenni. Ma l'artista instaura sapientemente un dialogo fra le superifici levigate (verniciate a fuoco) e le venature grezze e nostalgiche del legno. Il risultato dapprima affascina per l'eleganza, dopodiché vira sulla malinconia assoluta, sul vuoto degli sguardi che, in fondo, non fanno che rispecchiare il vuoto circostante.
Se con Senoner e la de Bruyckere la scultura contemporanea sembra riflettere sull'uomo a partire dalle incertezze e dalle mancanze esistenziali, il britannico Antony Gormley non si discosta più di tanto da certe caratteristiche formali (frutto di processi industriali e riflessioni sulla dimensione artificiale dell'uomo) ma approda ad una visione antropologica quasi utopistica. L'uomo di Gormley, seppur scomposto, neutralizzato, residuo di interazioni strutturali che lo attraversano e lo determinano (economia, biologia, semiotica ecc) non evoca la disperazione ma una sorta di indifferenza panica. Il suo status di ombra e di figura tra le figure, di punto sull'orizzonte, nega l'identità ma sembra spostare il piano cognitivo su di un livello mitologico. L'uomo interconnesso non si abbandona all'angoscia ma approda ad un'indifferenza mitologica, semi-divina. Osserva e viene osservato, ed in questo processo abbandona l'identità, le emozioni, l'umanità stessa. Il ribaltamento di una concezione classica: non è più l'uomo ad essere ombra del divino, ma al contrario, ciò che di imperturbabile e indifferente c'è nell'uomo, l'assoluto, lo spirituale ed il razionale, si manifestano come impoverimento. Così Gormley, come in una dimostrazione per assurdo, ci mette in guardia dall'immortalità e ci insegna a godere delle nostre limitate, irrazionali, ricchissime passioni umane. Troppo umane.
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