Jean Rustin. CelestePsichiatricoErotico (2 di 2)

di Flavio Arensi

Come Francis Bacon, Rustin siede al limite di una frontiera da cui il puzzo della degenerazione spande con una certa forza in ogni rotta, senza togliere dignità alla nostra storia di esseri piccini, bensì mostrando i termini di quella caduta che può sempre occorrere e che forse capita a ciascuno.

Perché d’altronde tralasciare l’angustia o l’impossibilità di essere diversi da ciò che si è, nella denuncia di miseria che diviene accettazione piena della propria inadeguatezza? Eppure egli continua a rappresentare l’uomo, non lo tradisce, lo situa nel tempo sospeso di un’attesa o di un incontro epocale appena dopo un avviso straordinario (torna alla mente l’atmosfera statica eppure vibrante dell’Annunciazione narnese di Benozzo Gozzoli, dove tutto è già stabilito e nulla più si concede al fato). 


D’altra parte, proprio il mistero, e appunto il rischio dell’incontro, stravolge le fisionomie dei bamboccianti di Rustin, posti lì, di fronte a un obiettivo che non lascia scampo alla pietà. Talvolta sembrano condannati alla gogna della propria miseria, seduti alla fermata di un destino che non vuole passare, o quantomeno raccoglierli. Per caso o per dispetto sono i protagonisti di una storia più grande di loro, comunque alienante, impantanati nel loro sopravvivere per chissà quale miracolosa eccezione; come Barabba, il primo uomo salvato dalla croce, senza tuttavia essersene reso conto, così come questi personaggi dipinti sono recuperati e redenti dal loro autore, o forse definitivamente dannati, pur non accorgendosene. Metonimie dei tempi peggiori, correlativo oggettivo del consorzio umano, testimoniano chi non riesce a vedere, l’insaziabile ricercatore della verità che, non trovando salvezza nella fede, la reperisce forse nel dubbio, finanche nella miseria, e dunque cammina sul limitare di un baratro che tocca d’essere sfiorato da chiunque di noi, e per noi intendo l’intera congerie terrena.

Forse la barbarie è proprio adesso, lo è in ogni atto disdicevole della storia contemporanea. Sussistono d'altronde piccole miserie che attanagliano, peggio di un grumo vischioso, il glottide con una paura ricorrente, in una notte di tormenti e sonni rinviati. Strano animale l’uomo che, con le sue esigue tarature, la sicurezza d’essere tanto grande da poter infrangere le debolezze altrui, e con i residui aguzzi dei suoi miseri bottini, costruisce impalcature sempre più alte in gloria del suo piccolo niente. Eccolo, immobile e assorto di fronte al destino, berciando talvolta come una bestia stretta all’angolo del cortile, con la rabbia di chi davvero trema di timore, senza ammetterlo, senza la percezione d’esistere al di là di ogni vano motivo: questi bamboccianti idioti sono compressi fra mura cilestri, corridoi di istituti manicomiali, psicodrammi recitati senza diletto, per necessità di esistenza. E Rustin è tanto spietato da metterci un'ombra velata d’ironia leggera, l’abbozzo di un sorriso che duole, che dovrebbero colpire ogni spettatore quando discostia lo sguardo da costoro e con costoro si sentae sui margini del burrone spirituale.


Il nosocomio che qui si inscena, nei connotati rovinosi di presenze più che esistenze, chiude l’anima in un cantone dolente e mette in risalto l’intera pochezza di una vita in cattività; gente che tace, forse urla nell'animo e si dibatte sui letti o contro le piastrelle gelide del pavimento, senza però (poter) fuggire, uscire dall’alloggio per provare almeno a prendersi questo dannato rischio di vivere, con angosce e strazi del caso, ma pure esaltazioni e piacevolezze. I più fortunati sembrano i masturbanti, chi alla fine si basta o, magari insoddisfatto della miseria di una camera senza fughe, cerca l’evasione momentanea e furiosa di una parentesi erotica; resta tuttavia il grido di parole silenziose, le facce stordite e stordenti di protagonisti dalle traversie squallide, talvolta sostenuti dalla compagnia di altri disgraziati e di un buio intimo più che esteriore, l’azzurro negato a ogni possibilità di fiducia. Un celeste che è disperante e attacca alla gola, forse rende apposta afoni e imbecilli. Vittime sacrificali con cui il destino gioca ai dadi. Come Giobbe perseguitato: "Ecco, tutto ho preparato per il giudizio, son convinto che sarò dichiarato innocente"1; anche i derelitti di Rustin sembrano incriminati da una giuria già orientata a comminare una pena senza termine di scarcerazione, al limite della forca, dove lo strazio di scampare lacera più del pietoso assassinio. Tutto è vacuo; persino ribellarsi diviene inutile? Meglio sospirare e forse indugiare? Forse disperare. D’altronde, anche il Dio di Giobbe non rassicura, anzi dimostra l’insignificanza umana nell’ambito della Genesi, aizza Leviathan e Beemot contro un innocente, “disconferma” la sua partecipazione alle vicende dell’uomo o a una realtà significativa soltanto all’interno di un progetto umanamente incomprensibile. Rustin non si occupa di conoscere a quale altare si benedicano offerte per piatire una tregua all’esistenza, piuttosto, come Pär Lagerkvist, s’interessa della voce che cerca risposte e, pur non trovandone, insiste a sollevarsi: "Non c'è nessuno che ode la voce invocante nelle tenebre. Ma perché la voce esiste?". Perché continuare a inveire una supplica quando gli dei non si occupano degli uomini, e non invece fermarsi e presto ritrovare nuovi sentieri da battere o altre direzioni d’esplorare? Il silenzio grigio-azzurro di Rustin pare scandire il blocco della bussola, l’incapacità di mirare in qualsiasi verso, ma intanto farlo, avanzare il primo passo verso la vita, smettere d’appellarsi, semplicemente ammettere il rischio esistenziale. Avrebbero – gli idioti rustiniani – necessità d’apparire sani, se non d’esserlo veramente. Sani neppure sembrano o sono. O meglio esibiscono una propria sanità agghiacciante, autoreferenziale, tesa e concentrata sul loro microcosmo: un pezzo di mondo che esclude astri, terre e tutti i fenomeni, ritagliato nel finito di una stanza. Come i grotteschi e volgari omuncoli sordidi di Pieter Van Laer (grotteschi e volgari lo erano per i nobili incipriati) costringono ad abbassare lo sguardo sul degrado umano sino all'insignificante vita comune di ogni giorno, così i bamboccianti di Rustin obbligano il pubblico – adunato ai piedi del loro gran teatro manicomiale – a schifarsi, ritirarsi, commuoversi e pensare. Finanche divertirsi, e un poco eccitarsi di fronte alla sua inoffensiva grammatica di organi sessuali.


Rustin spesso sorride zitto, con le braccia converse appoggiate poco sopra lo sterno, quasi a tener schiacciate le viscere e i ricordi lontani e presenti della sua storia: dipinge serrato all’ultimo piano di un anonimo grattacielo a Bagnolet. Compulsivamente, in uno spazio che tanto raccoglie il panorama largo della periferia francese e tanto stringe la veduta psicologica all’interno di una (oltremisura) compressa cella di prigionia dell’essere, i Piombi invalicabili dell’umana indigenza: e qui raccoglie a coorte un ammasso di celebrolesi, di larve maniacali, adolescenti aggrappati a una parentesi autoerotica, psichiatrica, azzurra, annichilente. Così procede l’armata di Rustin, come uscita dagli sberleffi di Honoré Daumier, ma senza quell’aria da paraculi noiosi, imbellettatati, ruffiani, e improvvisamente, ciò che più pesa al respiro è la fatica di negarci fra quella risma, accampando non una ma due, tre, mille scuse per ciascun quadro, per ciascun cialtronesco untore messo sulla tela, e giustificare la nostra presenza al loro cospetto, per dire che no, noi con loro non c’entriamo nulla. Non abbiamo quella faccia imbecille con le pupille dilatate; non le pose di bachi da seta e spettri; non lo sguardo sprecato in ansie stordenti; non azzurri; niente di loro, tutto di loro. Rustin osserva, come un giudice di corte inglese, con quella distanza che è neppure la corda per il cappio; talvolta sorride e forse pensa: "Perché giace una creatura nel fondo delle tenebre e invoca qualcosa che persino esiste?".

1 La Sacra Bibbia – L'Antico Testamento – I Libri Poetici e Sapienziali, Giobbe 13: 18.

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