Kiki Smith. Una forza ctonia

Un incontro di Silvia Bottani


Uno degli aspetti più belli del lavoro di critico o di curatore è quello di avere a che fare direttamente con gli artisti. Si tratta anche, ovviamente, di uno degli aspetti più faticosi, ma di certo alcuni tra i momenti umani più preziosi che si vivono grazie a questa professione sono legati agli incontri con chi dell'arte è diretto fautore.

C'è chi, per inclinazione personale, tende a privilegiare l'ascolto dell'opera e dimenticarsi volontariamente di chi la realizza. Si tratta di un peccato non lieve, ma rifuggire dalle biografie e dalle seduzioni legate all'artista-personaggio, dà l'illusoria sensazione di poter avere uno sguardo più limpido rispetto all'opera. Una sorta di formalismo, che ci fa desiderare di affidarci all'oggetto d'arte e alla sua purezza, scordandoci del fango umano da cui viene creato.
Attendo Kiki Smith in Piazza Duomo a Milano, ovviamente con una certa trepidazione. Ho riguardato la sua produzione, ripassato le esposizioni principali, come le miei reminiscenze accademiche mi suggeriscono sempre di fare, e soprattutto mi sono interrogata su chi mi sarei trovata di fronte poco dopo. Kiki, figlia dello scultore Tony Smith, viene da una storia artistica che si intreccia con l'esperienza del femminismo americano. Il suo lavoro è decisamente generoso nel dialogo con lo spettatore, in qualche misura mi dà l'idea di corrispondere alla persona che lo anima. É un lavoro molto “caldo”, dove le argomentazioni principali ruotano attorno alle tematiche del corpo, in verità soprattutto nella fase aurorale, quando il femminile anima la sua produzione: le immagini dei primi lavori sono talvolta disturbanti, raccontano di donne violate, soggiogate dalla volontà maschile, corpi attoniti di fronte al dramma della propria finitezza organica, creature il cui dolore viene trasceso attraverso un'operazione di monumentalizzazione del soggetto poetico. 


Corroborate da una spinta politica vigorosa, a sua volta alimentata direttamente dai portati del femminismo storico, il lavoro di Smith arriva e dirompe nel mondo dell'arte, collocandola immediatamente tra gli artisti più interessanti degli anni Novanta. Poi, verso la fine del decennio, c'è un'evoluzione chiara verso una dimensione mitica del racconto, le figure si fanno più asciutte e più compatte, in qualche modo trascendono verso un piano misterico, e la narrazione si definisce come favola e racconto sacro. Le sculture, le carte, le installazioni si popolano di soggetti simbolici come uccelli, lupi, figure mitologiche, un bestiario che sgorga direttamente da un'antichità che non ha collocazione geografica né storica, ma appartiene a una memoria collettiva.

La persona che ho di fronte e che mi saluta cordialmente è la soluzione di questa dicotomia: una figura dai colori e lineamenti che tradiscono l'origine germanica, esile, informale, estremamente cordiale, da cui traspare una grande risolutezza e, per contrasto, una svagatezza tipica di chi si concede di osservare il mondo da prospettive non preordinate. Visitando insieme le sale di Palazzo Reale che ospitano la retrospettiva di Mimmo Paladino mi interrogo sugli elementi che accomunano le poetiche dei due autori, peraltro apparentemente molto distanti tra loro. Il senso marcatamente architettonico dello spazio, cifra caratteristica della scultura di Paladino, non appartiene alla ricerca di Smith, né il carattere mediterraneo o le influenze colte che animano la ricerca pittorica dell'artista sannita. Eppure, l'umanità che popola le loro opere sembra provenire dalla stessa terra, vive in un tempo a-storico e appare filtrata da un sensibilità quasi sciamanica.


Smith percorre le sale dialogando con Flavio Arensi, curatore della mostra, e soffermando lo sguardo e l'attenzione ad alcuni nodi cruciali dell'esposizione: il lavoro “Da Caravaggio”, “Da Antonello da Messina”, i “Dormienti”, poi ricominciando dalla prima sala per immergersi di nuovo nel flusso della mostra. Proprio dinanzi alla distesa di corpi silenziosi di Paladino, infranti in un sonno post-apocalittico o memori di un'Arcadia perduta, scorro le immagini mentali di “Constellation” (1996), “Born” (2002), “Lying with the wolf” (2001), “Lilith” (1994) e le sue Sirene dal volto di donna e il corpo d'uccello, un mondo percorso da forze sotterranee e una carnalità originaria costantemente tesa verso una forma di ascesi laica. Sono figure di indiscutibile forza, scaturite dall'elaborazione della controcultura degli 'anni 70, la “sexual revolution” e le tematiche ambientaliste, la libertà regalata alle arti dall'esperienza surrealista e la fascinazione per la spiritualità delle culture primitive. Un insieme di elementi che, mischiati in un calderone pop, potrebbero dare origine ad una miscela greve se non addirittura prosaica ma che, nella poetica di Smith, coagulano in una produzione pregnante. L'opera di Smith è figlia di una visione chiara e potente, una ricerca che si muove con agilità tra territori culturali differenti senza paura di immergersi in profondità, vagando tra inconscio collettivo, identità femminile, erotismo, senso della natura e pensiero magico. Una poetica che sembra specchiarsi e capovolgersi in quella di Paladino, a tratti più severa e conchiusa.


Osservo Kiki Smith cercando di carpirne lo sguardo, o di leggere tra le cose dette qualche risposta definitiva, un segreto illuminante. Gli artisti rimangono però un quesito irrisolto e quasi mai ci concedono ciò che noi ci aspettiamo. Come in un testo esoterico, dietro una domanda attende sempre un'altra domanda, così all'infinito, e le risposte non arrivano mai. Eppure, continueremo a interrogarli per confrontarci con quel mistero prezioso che è l'atto creativo, la costituzione di senso, la forza assertiva di ogni opera d'arte.

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