Focus Mimmo Paladino. Cortocircuito (2 di 2)

(continua)


Nel pieno del rifiuto della pittura voi eravate dei pittori.
Sono etichette da cui un tempo ci si cercava di svincolare; oggi non c'è nessun problema a sostenere che io sia un pittore e credo del resto di esprimermi con la pittura anche quando non uso i pennelli.


Però sei partito dalla fotografia.
Si tratta di una fase suggestionata del momento storico in cui vivevo. Io ero un pittore che stava in un piccola città del sud in cui penetravano pochissime informazioni, tuttavia ebbi la fortuna di visitare la Biennale di Venezia del 1964 e filtravo di tanto in tanto le notizie attraverso un mio zio pittore. A Napoli comunque non mancarono mai gli spiriti avanguardistici, il Gruppo 58 per esempio. Il fatto che io rivolgessi la mia attenzione più verso le ricerche di avanguardia che non verso la pittura classica in quanto tale mi portò a fare negli anni settanta dei lavori “alla moda”. Devo aggiungere che la fotografia, in quanto mezzo artistico mi interessa tuttora. 
Il cinema?
È sempre stato un linguaggio come tanti che mi ha particolarmente affascinato come immagine/movimento, meno come narrazione. C'è una scelta, in questo caso, di tipo formale, ad esempio l'uso straordinario della fotografia nei film di Ingmar Bergman. Guardai i video di Mario Schifano e la sua esperienza cinematografica. D'altronde, la possibilità di utilizzare questo strumento in maniera libera e visionaria mi è capitò dopo trent'anni, in maniera casuale e inattesa, col Don Quijote.
A casa, nello studio, ho visto molte foto di fotografi, stranieri e italiani, dunque l'attenzione per la fotografia non fu proprio dettata dalla moda.
La fotografia rispetto alla pittura deve catturare “l'attimo fuggente”, poiché l'occhio del fotografo può e riesce a trasmettere una forma che non esiste in precedenza pur, paradossalmente, esistendo prima. Lo still life è una gelida parodia della fotografia nata sul set. La fotografia di reportage è un'altra cosa, e l'amo molto. 
A un certo punto, nel 1977, realizzasti «Silenzioso mi ritiro a dipingere un quadro». Un dipinto “epocale”, nel senso che per molti studiosi segnò la riconquista dello spazio pittorico che distinse gli anni ottanta.
È un quadro che dichiara il senso del dipingere; stanco dell'immagine fotografica che pure accostavo ai disegni, comprai una tela standard 50x70 cm., i tubetti di colore a olio e mi misi a dipingere un quadro con la coscienza e lo scopo preciso di non voler dipingere nulla, se non l'atteggiamento stesso del dipingere. Ma ero ben sicuro sarebbe rimasto un unicum. Poco dopo averlo terminato feci una una mostra a Torino e lo esposi, contestualizzandolo nello spazio della galleria segnato da disegni sulle pareti, nel frattempo incominciai a fare delle grandi superfici monocrome. La rinuncia di dipingere un quadro narrativo come «Silenzioso» l'avevo ben chiara, mentre pittori della mia generazione esploravano proprio questa via. In realtà mi sentivo ancora legato al mondo dell'astrazione. 



Si trattava di una dichiarazione di fuga dal mondo?
Mi ritiro” non significa affatto che me ne vado; è piuttosto l'atteggiamento di colui che davanti a una superficie bianca deve defilarsi per poter dipingere; ossia l'opposto degli episodi artistici di quel periodo che chiedevano agli artista di uscire dallo studio per realizzare una performance nelle gallerie o in altri spazi. 
Coeve sono le grandi tele che porti anche in Biennale con una matrice vicina all'astrazione. 
Queste grandi superfici derivano da un'influenza americana, la Pop art vista a Venezia nel 1964 con le enormi tele di Robert Rauschenberg, l'Action painting e gli artisti che inseguono i grandi spazi.
Nel 1979 andasti a New York. Che esperienza fu?
Ti lascio immaginare. Benché non fossero gli anni più vivaci della città, dal punto di vista creativo, mi fece una certa impressione incontrare Andy Warhol piuttosto che Roy Lichtenstein, respirando il clima culturale di una grande metropoli. Lì rimasi per oltre tre mesi, avvalendomi di un piccolo studio improvvisato tra pelli selvatiche all'interno di alcuni depositi messi a disposizione da uno zio pellicciaio. Dipinsi due quadri che vide e comprò immediatamente la gallerista italoamericana Annina Nosei, proponendomi anche una personale. Tornai in Europa entusiasta, anche perché da li a poco avrei inaugurato una mostra alla Art in project di Amsterdam dove fui notato da un'altra gallerista newyorkese, Marian Goodman, la quale mi propose di organizzare una personale nei suoi spazi newyorchesi. Riusci a mettere d'accordo le due galleriste e nel 1980 presentai agli americani quadri quasi monocromi di grandi dimensioni.
Come mai la scultura arrivò solo più tardi nel tuo percorso artistico?
In quel momento non mi interessò, e come spesso succede mi ritrovai per caso a modellare, o comunque in seguito a una coincidenza fortuita. Nel 1982 il gallerista Emilio Mazzoli mi chiese di provarci, consigliandomi di lavorare a Pietrasanta, ne uscì «Giardino chiuso». Dovendo pensare alla scultura il mio punto di riferimento naturale non poté che essere Arturo Martini con la sua composizione geometrica e la fissità arcaica delle sue figure, forse in maniera anche imprevedibile per un artista che lavorava in un periodo orientato verso altri maestri. Ti assicuro che Martini era un dimenticato, e i suoi lavori lontani secoli dal gusto del momento, però forse intuii che alle spalle di una certa scultura italiana fosse imprescindibile passare dal suo genio. 
Rispetto alla pittura o al disegno cosa cambia quando affronti una scultura? 
Relativamente a un disegno su un pezzo di carta o a una figura sulla tela la spazialità è diversa eppure non così tanto da farmi pensare a situazioni stravolte, ma lo stesso potrei dire per la progettazione di una piazza. 
Quindi gestisci un intervento urbanistico come un quadro?
L'architettura mi interessa molto in quanto spazio abitabile, reale, funzionale. Come studio dello spazio è una costruzione e un quadro è una costruzione, anche la pittura gestuale che può sembrare istintiva e immediata risponde alle stesse logiche organizzative.



Vorrei fare un passo indietro e sapere come mai a un certo punto dai monocromi tornasti alla figura.
Anche ora, l'immagine umana appare quando mi pongo davanti alla tela in maniera lenta e allora lo stratificarsi della materia e del colore scontorna una sagoma, forse restituendo persino un esito narrativo costituito da protagonisti che possono essere evocazioni di un mondo arcaico o addirittura di altra pittura. Mi viene in mente «Suonno» il d'après dal «Sogno di Costantino» di Piero della Francesca che mi interessò proprio per la sua architettura. 
Spesso ci si chiede di cosa riferiscano i segni e i simboli che immetti nei tuoi lavori.
Appartengono forse a una visionarietà archetipa. Pensa al segno della croce che esiste da sempre e che può anche non rappresentare la crocefissione, tanto che in altre culture si carica di valori distinti.
Ti è capitato spesso di inserire le tue opere in contesti antichi, già di per sé pregni di valenze. In che modo ti rapporti con luoghi che hanno una storia forte alle spalle?
Il confronto è comunque e sempre con lo spazio, che sia antico o contemporaneo non importa, anche quando ci sono interventi artistici di altri maestri – con tutto il peso del loro portato linguistico e storico – non trovo difficoltà a cercare il dialogo, semmai diviene decisiva l'attitudine con cui si entra in contatto, bisogna comprendere bene dove ci troviamo e comportarci con riguardo. Se penso a un maestro antico mi metto a seguire le tracce che semina, cerco di comprenderlo, e quello che ne risulta può essere una interpretazione al principio magari divagante, e invece in cerca della sostanza; nel caso per esempio di Antonello da Messina ho risolto elaborando un architettura più che un vero dipinto. 
In gennaio hai ridisegnato la stanza che ospite il «Guerriero di Capestrano» a Chieti, segnandone le pareti, reinventando lo spazio, in questo caso come ti sei mosso? 
Bisogna leggere il «Guerriero» in termini geometrici: c'è il disco del cappello, ci sono due assi portanti, e mi sembra interessante vedere come gli antichi si riferissero alla geometria.
Nel ciclo «Esercizi di lettura» giungi a una pittura dell'informalità, o meglio, a una costruzione dell'informe e della forma. 
Si tratta di esercitarmi, e invitare a esercitare, l'atto del guardare, del mettersi davanti a una forma quasi come ci si dovesse allenare a costruire un'altra forma. È una sorta di esercizio visivo per cogliere un aspetto inedito di una forma già esistente. 
Vale anche per le «Geometrie»?
In quel caso si procede oltre la cifra di lettura. Non sono mai assolute ma sono sempre combinate con elementi figurativi, che poi sono anche in questo caso registri che trovi nei primi lavori («Stregato», n.d.r.). La «Geometria» è una interpretazione progettata dello spazio che si trasforma in una specie di partitura musicale da suonare. 



Potrei dire che il “cortocircuito” assume il ruolo di una cifra stilistica?
Il cortocircuito lo scopre forse Marcel Duchamp mettendo un oggetto vero in uno spazio dedicato all'arte, immediatamente caricandolo di nuovi significati. 
Qualche anno fa all'Accademia di san Luca ci si domandò se l'arte dovesse presentare o rappresentare. Che ne pensi?
È un'antica questione. Sono per il presentare, anche se il rappresentare potrebbe risultare affascinante, anche troppo affascinante, perché non determina uno scontro. 
Allora quanto diviene importante la ricerca del materiale o della materia? 
Fondamentale. Però non è il fine. Se una carta stropicciata e velata in un certo modo ti suggerisce una forma non è che tu la stavi cercando, la trovi. Il caso può essere determinante. Ti imbatti in una possibilità e devi essere talmente all'erta da non farti sfuggire l'occasione che offre. 
Quando organizzi uno spazio architettonico il confronto è dunque anche casuale con gli elementi preesistenti. Nell'«Hortus conclusus» di Benevento il visitatore fa i conti con il chiostro in cui sono inseriti i tuoi interventi. 
Anche qui il caso è stato determinante. Non posso spostare una pianta secolare o un muro del medioevo, posso invece piegarli, integrarli, al mio scopo. Qui decisi di creare un luogo, e non una scultura, utilizzando degli elementi già dati cui aggiungere segni nuovi; però l'intento resta di poter cogliere delle suggestioni positive, perché c'è la luce del tramonto che gioca con la forma del cavallo, poi scopri la pietra incastonata, insomma una specie di piccolo giardino delle meraviglie, estremamente rigoroso, meditato. E ogni persona che entra ne esce con un'esperienza personale, diversa da quelle vissute da chiunque altro.
Spesso grandi reporter rileggono i tuoi lavori, penso a Ferdinando Scianna, Gianni Berengo Gardin, per citarne due ma ce ne sarebbero altri. 
Quando la fotografia è di uno spazio, di una scultura, o comunque di un lavoro che può essere interpretato dall'occhio di un altro artista si ottiene una interpretazione aggiuntiva, e la riconsegna di un'immagine nuova, autonoma, dunque molto interessante. 
Ti è mai capitato di capire che stavi ripetendo un gesto?
Assolutamente sì, a volte anche volontariamente. Faccio dieci teste, ma stai sicuro che se meditate non saranno mai uguali fra loro né simili a quelle dieci fatte un anno fa. Magari pongo lo stesso tema per una facilità esecutiva; inevitabilmente però non sono mai identiche, diventa ripetitivo il soggetto ma non il suo significato. 
La tua testa vista da dietro è quasi un marchio, o una ossessione?
Quella fu un immagine trovata che rielaborai con l'acquaforte. “Ossessione” non è una parola da usare nell'arte perché altrimenti tutto è ossessivo. Basta vedere Fontana per capire che un taglio è diverso dall'altro, che cambia il valore perché ogni volta avviene un rapporto diverso con lo spazio della tela. Molto lavoro di altri artisti meno interessanti risulta ripetitivo perché fiacco, una semplice ripetizione di una cifra. 
Mi ha sempre sorpreso come i grandi maestri riescano a rendere l'errore, l'inciampo, un elemento creativo. Penso a Auguste Rodin che lascia le barbe della fusione, i ferri ruggini fuoriuscire dai ritratti per diventare un segno estetico. La tua pittura è fatta anche di errori?
Non fosse così cosa si imparerebbe? Se poi per errore si intende un incidente, allora la pittura ne è costellata. È ovvio che se presenti un cubo perfetto, lo metti in una stanza,  quella è un'opera senza errori, senza incidenti. 
Che quadro rifaresti?
Ce ne sono alcuni che tecnicamente farei meglio oggi rispetto al passato, perché all'epoca non ero abbastanza interessato all'aspetto tecnico. «Stregato», per esempio, dovetti restaurarlo, perché lo feci nella galleria Adelina von Furstenberg a Ginevra mettendo la tela in terra e cospargendoci sopra dieci chilogrammi di pigmento blu. Il quadro si mantenne per miracolo. Ma rispondevo a una logica storica per cui il pittore era chiamato direttamente a lavorare in galleria. Si costruiva la mostra sul posto, con la logica dell'Arte povera. 
Quando un quadro è finito?
Quando mette le gambe.

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