Focus Mimmo Paladino. Cortocircuito (1 di 2)

Intervista tratta da F. Arensi (a cura di), Mimmo Paladino a Palazzo Reale, Gamm Giunti 2011

                                           Foto: Pierantonio Tanzola


Un paio di anni fa andai a Roma qualche giorno con Gianni Berengo Gardin per realizzare un servizio fotografico dedicato a Mimmo Paladino dovendo preparare un libro sulla sua scultura. Una delle fotografie più belle trovò la giusta ambientazione in un taxi; eravamo diretti al Teatro India per degli scatti alle installazioni scenografiche: lui davanti, accanto all'autista, girato verso di noi con un sorriso largo, accogliente. È un sorriso che abbindola perché disarmante. Difficile riuscire a negargli qualcosa, semmai bisognerebbe provare ad arginarlo per non trovarsi immischiati in qualche progetto, logico per lui, faraonico per gli altri. Forse sta qui tutta la differenza tra un'artista e una persona “normale”. Quando si iniziò a immaginare una mostra monografica a Palazzo Reale di Milano venne quasi istintivo chiedergli di portare la «Montagna di sale» in piazza Duomo, nonostante qualche riserva per i numerosi eventi che di norma occupano il sagrato basso davanti alla cattedrale, manifestazioni e appuntamenti non certo consoni per l'installazione di un opera artistica. «La “Montagna” - mi rassicurò - ha bisogno di un luogo pieno di gente, è un'opera popolare, non ha paura del confronto, vedrai che accadranno delle cose magiche». A Napoli andò proprio così. 
Mimmo, come si arrivò all'evento di Piazza del Plebiscito di quindici anni fa?
«La montagna di sale» nacque in realtà a Gibellina nel 1990 per le Orestiadi, come scenografia teatrale per la Sposa di Messina di Friedrich Schiller messa in scena da Elio De Capitani. Fu necessario immaginare un lavoro valevole per tutti gli atti, trattandosi di una rappresentazione all'aperto sulle rovine della città distrutte dal terremoto. Lui mi suggerì di ispirarmi a un giardino zen, ma dopo un sopralluogo, vedendo i mucchi delle saline a Trapani, decisi per un accumulo di sale da cui far emergere o sprofondare le sagome scure dei cavalli. Evidentemente, per i fini teatrali, fu composta solo una sezione, quella coinvolta dalla scena. Però, cinque anni dopo, capitò l'occasione di costruirla per intero. Durante la mia mostra a Napoli, alle Scuderie di Palazzo reale, Eduardo Cicelyn mi propose di installare una scultura in piazza del Plebiscito, da poco resa inaccessibile alle auto e dunque vuota. Pensai che la «Montagna» potesse essere un elemento forte e lavorammo in pochi giorni per realizzarla, sotto una pioggia battente. Questa presenza misteriosa in piazza sorprese tutti, proprio per il rapporto forte che ebbe con lo spazio e con la gente. 

                                           Foto: Lorenzo Palmieri

In che modo reagirono i napoletani?
Successe di tutto: dagli scugnizzi che si arrampicarono a chi recuperò il sale per il valore scaramantico che ha  per la Smorfia, addirittura si giocarono i numeri al lotto, per altro vincendo, insomma fu una specie di appropriazione dell'opera da parte della comunità. A mezzanotte di capodanno Nino D'Angelo tenne un concerto abbarbicato sulla cima, nonostante le vertigini. 
Non fu la «Montagna» ad appropriarsi della città?
Fu una cosa curiosa. L'arte contemporanea, che non era mai uscita dalle gallerie e dai musei, quantomeno non era mai arrivata in modo tanto dirompente a occupare una piazza per lungo tempo, se non nella modalità quasi sacrale con cui spesso si fa, divenne un elemento popolare, e così reperì anche il  senso della sua ideazione. Da allora, per quindici anni, piazza del Plebiscito ha continuato ad ospitare gli artisti, con una formula nuova, cioè ogni autore invitava qualcuno per l'installazione dell'anno successivo. Io, per il 1996, proposi Jannis Kounellis che realizzò un bellissimo progetto. 
A capodanno la fecero esplodere dopo il concerto con i fuochi d'artificio, e così la «Montagna» scomparve. Non credi che un'opera tanto importante dovrebbe invece restare permanente? 
No, ritengo giusto sia sparita e sparisca di nuovo per riemergere chissà quando e dove, poiché fu e resterà un'epifania, fatta di materiali deperibili, un'apparizione misteriosa, una sorpresa. Il fatto di portarla in piazza Duomo a Milano, che per me rappresenta una seconda patria essendomi trasferito qui da Benevento per lavorare e viverci molti decenni, riconduce proprio a questo valore della transitorietà, del viaggio che comincia nel profondo sud della Sicilia, passa da Napoli e arriva davanti alla Cattedrale, di cui architettonicamente diventa una sorta di quinta. Del resto, il linguaggio dell'arte ha proprio la capacità di valere per tutte le latitudini e tutti i tempi.
La «Montagna» derivò dalla visione delle saline; questo rivela una tua metodologia precisa, ossia di chi osserva il territorio per prendere ispirazione, per trarre dei suggerimenti che poi tornano nelle opere, magari  rielaborati. 
Sono inconsapevole nella consapevolezza. Io lavori con dei segni e delle forme e qualcuno li legge come derivati dalla cultura mediterranea, o forse sarebbe meglio dire longobarda visto la storia di Benevento. 

                                          Foto: Lorenzo Palmieri

Hai citato Kounellis per la «Montagna». Si è sempre pensato a una forte contrapposizione fra Arte povera e Transavanguardia, però i tuoi lavori degli anni settanta sentono fortemente quel tipo di affermazione artistica, si avvalgono anche di un residuo di concettualità. Sarebbe sbagliato ritenerti il raccordo fra il poverismo e il ritorno alla pittura?
Le contrapposizioni, almeno per quanto mi riguarda, non ci sono mai state. Forse sono emerse sul piano critico, meno fra gli artisti. Alla fine degli anni settanta l'arte concettuale stava esaurendo il suo percorso e con alcuni artisti della mia generazione fu quasi naturale riprendere gli strumenti del dipingere.  Mentre il concettualismo cristallizzava, l'Arte povera in Italia, pur nei suoi presupposti ideali e politici, propose uno sguardo sulla materie e i segni, gli accumuli e le stratificazioni - penso alle tele “suonate” di Kounellis nel rapporto col mondo classico antico o all'energia del “carretto giallo” di Mario Merz - niente affatto differenti da quello che gli anni ottanta tutto sommato, con altri strumenti, avrebbero proposto. Il collegamento con l'Arte povera è dunque chiaro, e fra i compagni di quell'epoca forse cercai soprattutto io il contatto con queste vicende. 
Quando parli di ripresa del linguaggio pittorico però non dobbiamo dimenticarci di chi in effetti non abbandonò mai il cavalletto. E comunque anche Kounellis dice di ritenersi un pittore. Eppure molti sostengono siano stati quella della vostra generazione a recuperare la pittura. Come è possibile aver saltato una intera schiera di pittori da studio?
Di loro non ce ne si accorgeva. É vero, c'erano artisti che continuavano a dipingere nel pieno fervore dell'Arte povera, in pieno concettualismo, né mi sentirei di dire che stavano fuori dal mondo ma erano un altro mondo, attardato; non posso evitare di riconoscere la giusta importanza a fenomeni come Support/Surface o altri gruppi, anche italiani, alle prese con una ricerca pittorica radicale. In fondo la pittura non è mai morta; non è un problema di mezzo o di metodo bensì di come organizzare le materie o la materia per fare questo mestiere. Il discrimine è con l'arte concettuale che giunge - seguendo forse una volontà duchampiana - ad azzerare le materie e anche le emozioni per veicolare un messaggio di tipo intellettuale che non tiene conto di altro. 

                                          Mimmo Paladino, Silenzioso (l'angelo), 1977

Forse fu significativo che nella Biennale di Venezia del 1980 la rassegna «Aperto» presentasse i pittori della tua generazione, facendo incominciare la Transavanguardia, mentre il Padiglione Italia di Vittorio Fagone presentò i pittori aniconici, in una sorta di convivenza forzata fra chi guarda al passato e chi cerca una soluzione per il futuro.
Quella era comunque una pittura che si sforzava di trovare soluzioni nuove. C'erano però tanti pittori fuori tempo. Noi stavamo vivendo un nuovo avvento della pittura, in un clima che coinvolse anche la Germania e gli Stati Uniti; almeno, per quanto mi riguarda, io ero ben conscio ci fosse stato uno stacco profondo dal quale non si poteva prescindere con Lucio Fontana e Alberto Burri o - come ci siamo detti prima - con le sperimentazioni degli anni settanta. Sarebbe stato un errore far finta non fosse successo nulla. 
La Biennale resta celebre per aver lanciato il gruppo della Transavanguardia, attraverso la novità del pensiero di Achille Bonito Oliva, tuttavia senza ci fosse da parte vostra un'intenzione programmatica, o sbaglio?
In qualche modo gli artisti italiani di «Aperto» andavano pensati e letti come un momento culturale univoco: tali coincidenze chiedevano di essere raccolte in una filosofia critica precisa. Certamente non ci fu mai un gruppo ne ci poteva essere, perché le basi furono di una totale libertà ideologica e linguistica, cosa che assolutamente impediva di formulare alcun manifesto comune, mancando fra noi, almeno all'inizio, qualsivoglia contatto.
Giovanni Testori un giorno descrisse sul Corriere della sera la nascita della Transavanguardia, facendo notare che tutti voi riceveste attenzione individuale all'estero, prima che collettiva. Addirittura si potrebbero fare altri nomi, poi scomparsi. Come mai in Italia riceveste un riconoscimento successivo? 
I momenti della storia sono sempre indecifrabili. In quell'attimo in Italia successe molto e successe anche grazie all'importanza ottenuta dall'Arte povera. I direttori dei musei europei si domandarono cosa stesse accadendo nel nostro paese registrando anche la ripresa degli strumenti pittorici da parte di una nuova generazione di artisti. Così ci invitarono nelle mostre dei loro musei in Svizzera e Germania. In Italia si stava ancora sulle barricate, i problemi erano ideologici.  (continua)

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