Focus Mimmo Paladino. La scultura

di Michele Bonuomo



Un volume che non vuole essere solo una catalogazione scientifica della scultura di Mimmo Paladino dal 1980 al 2008 ma si offre come una vera e propria indagine sulle ragioni e sui sentimenti più profondi che essa esprime. 


Un’indagine, questa di De Martino, condotta con grandissima cura e passione e, conoscendo l’incontrollabile mobilità dell’artista, immagino realizzata anche con altrettanta fatica. Per stare dietro all’energia magmatica e prensile di Paladino ci vuole un buon fondo atletico dal punto di vista del metodo, ma anche una grande pazienza e una buona salute. Tutte qualità che, visto il risultato finale del lavoro, appartengono a De Martino e che gli hanno consentito di dare forma definiva a uno studio che d’ora in poi sarà imprescindibile per attraversare la scultura di Paladino. Un testo di riferimento, dunque, fondamentale per gli studiosi che nel tempo dovranno continuare ad analizzarla e per quei collezionisti che vogliono sentirsi parte del lavoro dell’artista.

A questo punto, però, entrando un po’ di più nel merito, mi accorgo che la mia piccola invidia nei confronti dell’autore del volume si trasforma in gratitudine, perché con questo lavoro è riuscito a tracciare un percorso di lettura della scultura di Paladino efficace e definitivo, lucido e lineare. Il tutto, realizzato con una scrittura che rifugge da narcisismi o, peggio ancora, da quel linguaggio cabalistico che accomuna i tanti che scrivono d’arte: quel critichese, cioè, che se non irrita, di sicuro annoia.
D’altra parte, si sa, se ogni complessità non è riconducile a una chiarezza, vuol dire che ha dei problemi in sé. Innesca dei sospetti. E nel caso dell’arte, in maniera ancora più evidente, la mancanza di chiarezza crea una distanza irriducibile tra l’opera e chi si pone di fronte a lei.
Non è questo, di sicuro, il caso di Paladino. Se c’è, infatti, un artista contemporaneo che ha trasformato la complessità in uno straordinario strumento emozionale ed evocativo fatto di immediatezza è proprio lui. Tutto il mondo di Paladino ha in sé la complessità e la semplicità della narrazione mitologica e favolistica. Un sistema “narrativo” in cui ogni simbolo, ogni segno, ogni allusione, ogni elemento compositivo è fine a se stesso e concorre a creare una visione armonica. Un mondo, dunque, che appartiene totalmente all’artista, ma che è anche molto ospitale per chi ha voglia di entrarvi.



Quello di Paladino è un universo arcaico. E, al tempo stesso, attualissimo per la sua assoluta capacità di impossessarsi di frammenti e di echi di memorie passate e per la sapienza di creare segni di una memoria ancora in costruzione. Un universo che parla delle sue origini e del fine che vuole raggiungere, della necessità del futuro.
«La mia cultura visiva», testimonia Paladino, «nasce da un’idea di stratificazione, con immagini figurative e non figurative, talvolta anche decorative e minime. È il paesaggio fisico e mentale del sud d’Italia, dell’entroterra beneventano, del Sannio, pieno di frammenti più che di immagini definitive. Una storia frantumata e ricostruita, una storia di passaggi e di tracce, dove un frammento di testa romana si incastra con un blocco di epoca precedente. Poi vengono i Longobardi che aggiungono altro ancora e allora tutto diventa un collage di elementi astratti e figurativi, oppure irriconoscibilmente figurativi.
Il mio punto di riferimento non cosciente lo ritrovo proprio nella cultura del Meridione, in quelle architetture e in quelle opere fatte di segni necessari e, tuttavia, anonimi.
In quella terra, quando si innalzava un muro lo si faceva con ruderi di altre epoche e con frammenti dissotterrati. È da qui che nasce il segno dell’uomo trasposto in un’opera funzionale alla spiritualità».

Partendo da queste premesse, Paladino fa un’operazione straordinaria: riporta la disciplina della scultura nell’arte contemporanea e la rifonda. Con lui la scultura torna ad essere “lingua viva”, per parafrasare la drammatica sconfessione della statuaria, fatta da Arturo Martini nel suo dolente scritto del 1945.
Non credo di esagerare, e se anche così fosse me ne assumo la responsabilità: Mimmo Paladino più di ogni altro incarna l’anima profonda della scultura contemporanea.
Il lavoro di tanti altri protagonisti contemporanei della scena internazionale spesso si riduce solo all’ostentazione cinica ed enfatica di un oggetto banale o alla teatralizzazione di un gioco di parole. Per esemplificare, avete presente quello che oggi fanno Jeff Koons, Damien Hirst o Maurizio Cattelan. O quello che negli anni 70 facevano tanti minimalisti americani? Niente a che vedere con una disciplina, la scultura, che certo in quegli anni era appannata, si era persa nella maniera e nell’accademia, ma che chiedeva di tornare ad essere un linguaggio potente dell’arte: l’unico in grado di trasformare alchemicamente la materia e il pensiero. L’unico capace di confrontarsi con gli spazi minimi di un luogo privato e con quelli di un grande edificio pubblico o di una piazza.
Paladino, come alla fine degli anni 70 silenzioso si ritira a dipingere un quadro dando inizio a magnifica stagione della pittura, così nella stessa solitudine si ritira a dialogare con Picasso e Brancusi, con Morlotti e Marino Marini, con i misteriosi scultori etruschi e con lo sciamano Joseph Beuys, con le forme dell’architettura e con le strutture della musica.
Così facendo ogni materia da lui toccata (il legno, il ferro, il bronzo, l’oro e l’argento, la pietra, l’argilla, la carta o un semplice oggetto trovato) gli permette di dare vita all’arte.
Ed ecco, allora che in trent’anni di scultura nascono capolavori come Vinci-tore, un legno dipinto del 1982; Giardino chiuso, un bronzo del 1983 anch’esso dipinto; la serie dei Testimoni, in pietra di Vicenza. Prendono forma i Carri, le Torri, gli Scudi e gli Elmi, i Cavalli che dal misterioso Hortus Conclusus di Benevento partono per una lunga marcia che li porterà poi sugli spalti del Forte del Belvedere a Firenze, sul tetto del Museo Madre a Napoli e nel Palazzo del Parlamento Europeo a Bruxelles…



E poi arriva la serie dei Dormienti - magici alla Fonte delle Fate di Poggibonsi o a Londra - fino ad arrivare all’architettura che si fa scultura, come nell’esempio straordinario della Piazza dei Guidi a Vinci; o la scultura che dà una nuova misura all’architettura, come nel caso della Montagna di Sale. L’elenco delle opere che hanno segnato questi ultimi trent’anni di lavoro di Paladino è, ovviamente, scandito per difetto…
«Appare allora evidente - scrive De Martino - che l’intenzione di Paladino non è semplicemente quella di fare una scultura come opera d’arte ma, al contrario, configurare un’opera d’arte come scultura… È per questa ragione che la sua opera appare in assoluta ma riconoscibile e splendida “solitudine” nel panorama dell’arte internazionale. Facendo venire in mente, pur contrastandolo radicalmente, il paradosso di Baudrillard secondo il quale così come “la pornografia ci ha tolto l’illusione del desiderio, molta arte del nostro tempo sembra volerci privare del desiderio dell’illusione”». Trent’anni di scultura di Paladino ci hanno evitato questa sciagura, soddisfacendo appieno il nostro desiderio di illusione. Che altro non è che un inarrestabile desiderio di vita.

Mimmo Paladino
La scultura 1980 - 2008
Autore: Enzo Di Martino
Editore: Skira
Pagine: 488
Prezzo: euro 180,00

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