Frangi. Il bosco con i colori del mare

di Marta Cereda


Cammino in penombra, tra gli alberi. Solo il sordo rimbombare dei miei passi a farmi compagnia, nella visita alla mostra La règle du jeu di Giovanni Frangi. Le ombre reali e quelle dipinte si confondono, creando l’atmosfera ideale per distorcere la percezione, come inducono a fare questi giardini che di bucolico hanno ben poco.
Seppur l’ispirazione dell’artista sia, infatti, il parco milanese di via Palestro, l’assenza di orizzonte, che caratterizzava già i primi dipinti di Frangi adolescente1, ed il punto di vista non consueto sono in grado di trasfigurare il riferimento reale. I giardini divengono un luogo misterioso e non eccessivamente rassicurante, dove i Sette Savi di Melotti sarebbero a loro agio forse più che nel parco di Villa Reale a Milano.
L’esposizione approfondisce uno dei temi in cui Giovanni Frangi si è rivelato maestro, senza che, per questo, nessuno voglia azzardarsi a definirlo un paesaggista. Il percorso che conduce a queste opere è cominciato probabilmente nel 1998, con i primi studi per le tredici grandi tele che avrebbero ridefinito lo spazio del Palazzo delle Stelline a Milano. Una tappa imprescindibile, quasi un punto di non ritorno, è poi stato rappresentato da Nobu at Elba, a Villa Panza2 (2004), seppur in questo caso il protagonista della mostra/narrazione fosse un fiume. I tronchi avevano conquistato lo spazio, diventando sculture quasi informi, comparse, ma al centro della scena.
Troppo spesso di Giovanni Frangi viene sottolineata la fedeltà alla pratica pittorica, quasi come eccezione rispetto alla tendenza dominante in ambito artistico tra i suoi coetanei. Pare, però, che soffermarsi sulla sua abilità nell’uso del colore e nel delineare le forme sia, oltre che banale, decisamente riduttivo. Una componente essenziale della poetica di Giovanni Frangi è rappresentata da quella che si può definire come “messa in scena” delle opere, eliminando ogni connotazione negativa da quest’espressione. La concezione e la creazione dei dipinti sembrano non essere indipendenti dal contesto e dall’allestimento, che, da sovrastruttura, diventano elementi in grado di contribuire al senso dell’opera e di legare in modo indissolubile una tela all’altra. 


 Questa attenzione è manifestata sia nelle esposizioni minori, come in Demasiado tarde, ad Imbersago, dove 42 dipinti di piccolo formato erano collocati su un’unica parete senza soluzione di continuità, sia in quelle più significative, come nel caso dei due View Master3 presentati a Firenze, che inducono a riflettere sulla visione e sulla tecnica fotografica.
Nel 2010 Frangi è stato ospitato al Mart con Giardini Pubblici. L’esposizione al Museo di Rovereto, individuabile come l’ultimo passo verso La règle du jeu, ha rappresentato in realtà un’eccezione, o meglio, una sorta di sosta riflessiva, resa possibile dall’accostamento degli schizzi accanto all’opera finale.


La possibilità di comprendere le modalità di lavoro di Giovanni Frangi induce ad un accenno al contrasto tra l’apparente incompiutezza dei dipinti e la ricchezza degli studi che li precedono. Ruolo importante nel lavoro preparatorio è rivestito dalla fotografia, che funge da intermediario tra quella che romanticamente si potrebbe definire ispirazione e l’esito finale, idea che inevitabilmente richiama alla mente Gerhard Richter.

1 G. Agosti, Giovanni Frangi alle prese con la natura, Feltrinelli, Milano, 2008.
2 Tanto che nel catalogo è stato dato ampio spazio al ricordo della mostra Il Richiamo della foresta al Palazzo delle Stelline.
3 View Master- Il disgelo; View Master- Il fondo del mare, Galleria Poggiali e Forconi, Firenze, 2006.

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