Ipotesi su Gabriel Orozco

di Davide W. Pairone

L'intero corpus di opere di Gabriel Orozco somiglia ad un'attività demiurgica, ad un gesto che stende un velo di carta millimetrata sul mondo e crea la forma, là dove prima era solo caos e rumore. Bisogna immaginare la condizione del demiurgo platonico: la solitudine e la responsabilità, il potere divino, eppure inadeguato, dell'intelletto di fronte alla materia primordiale. Un sacro timore (θειος φοβος, theios phobos) investe chi osserva il fondo delle cose, il fondamentale caos della realtà.
Orozco modifica oggetti e situazioni preesistenti e dona loro intelligenza, ritmo e respiro, ma se consistesse solo in questo il suo lavoro oscillerebbe fra lirismo retorico ed esercizio di stile. Invece per realizzare un'opera come Breath on piano (1993) l'artista deve porsi in una condizione di attesa e di ascolto in modo da poter leggere la possibilità delle forme all'interno del caos. 


Il punto di partenza è il soggetto: nelle prime opere Orozco ne testa i confini, misura la quantità e la qualità dello spazio a partire dal proprio corpo, dal respiro e dal tatto. In seguito tende a riscontrare - e sconvolgere - le leggi interne al paesaggio, al movimento, alla funzionalità delle macchine e della biologia. Un percorso sempre più impersonale fatto di minime sovversioni o di giganteschi sforzi antieconomici finalizzati sempre ad una riorganizzazione di strutture. Ma se inizialmente la griglia che decifra il mondo è un'estensione del corpo e del soggetto, dunque un discorso e una narrazione, nelle opere più mature la regola compositiva è dettata dal dato oggettivo in cui è già presente ed implicita. 


Quando modifica le fotografie di sport evidenziando il moto e le linee di forza, quando osserva la coda di un cane o l'interno di una moschea nel deserto, quando reinventa i giochi del Go, del biliardo o del ping pong, Orozco mette fra parentesi le istanze del soggetto e "ascolta" l'oggetto. Gli interventi di grafite nera sul cranio e sullo scheletro della balena si basano su questo processo di svelamento della configurazione: lo scheletro, già di per sé limite interno del movimento, viene ricoperto da una griglia, un reticolo regolare che ha origine nei punti focali della funzione-teschio, come cavità oculari e giunture. Qual'è il senso di un simile intervento che potrebbe essere interpretato come mero gioco decorativo e percettivo? Per rispondere bisogna riformulare i termini, chiedersi non quale senso Orozco abbia voluto dare alle ossa ma quale senso abbia voluto trovare nelle ossa. Per questo il teschio di Damien Hirst è opposto al teschio di Orozco: il primo è un simbolo, il secondo è un'indagine volta a svelare la struttura profonda di una configurazione biologica. 


Non è l'arroganza di chi vuole affermare un senso ma l'umiltà tragica del demiurgo costretto a trovare tracce di intelligenza nelle cose. Ovviamente il primo aspetto da interrogare è la funzione, puramente meccanica, di uno scheletro, di un'automobile, di un gioco. La regola immanente viene così evidenziata dalla griglia e, moltiplicata, si neutralizza. Per Rosalind Krauss la griglia è silenzio, è impermeabile al linguaggio perché annulla le gerarchie e gli orientamenti. E' un modulo, è la ripetizione pura e in quanto tale non possiede centro e periferia. 


Le forme che Orozco crea e ri(n)traccia - che traccia di nuovo - nascono quindi dal contrasto fra realtà multiforme e  griglia razionale, dall'attrito che si crea fra le due superfici. Un'arte diversa dall'espressione della volontà di un soggetto, come pure aveva formulato nelle sue prime opere. Un'arte semmai sperimentale, che  intacca l'organizzazione della materia ma che nutre rispetto e timore nei confronti del ritmo profondo e caotico della realtà. Un aforisma attribuito a Goethe suppone che il colore sia il dolore della luce. Parafrasando, la forma potrebbe essere il dolore del caos. Allora diminuire l'entropia sarà un'azione culturale ed artificiale che solo pochi, fra cui Gabriel Orozco, sanno rendere naturale.

Nessun commento:

Posta un commento